RAZZA, LINGUA, EMOZIONI E COUNSELING FILOSOFICO

RAZZA, LINGUA, EMOZIONI E COUNSELING FILOSOFICO

TU CHIAMALE SE VUOI, MA SOPRATTUTTO SE PUOI, EMOZIONI: CHE COSA SUL COUNSELING FILOSOFICO (OLTRE CHE SULL’INSOSTENIBILITA’ DEL RAZZISMO) HO IMPARATO DAL BEL LIBRO “LA RAZZA E LA LINGUA”, DI ANDREA MORO

Il libro di Andrea Moro, La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo (La nave di Teseo, 2019), ha come scopo, realizzandolo egregiamente, quello di mostrare l’infondatezza e l’insostenibilità del razzismonella versione del “razzismo linguistico”. 

L’ho letto con grande interesse e con grande piacere, sia per quanto dice sul linguaggio (e quindi per quello che mi dice in quanto sono docente di linguistica e filosofia del linguaggio all’Università), sia per quanto dice sul razzismo e la sua insostenibilità (e quindi per quello che mi dice come cittadino). 

Ma in questo libro ho trovato anche delle idee importanti per la mia attività di counselor filosofico, anche se l’autore non aveva minimamente in mente il counseling filosofico.

A proposito del razzismo linguistico l’autore dimostra – ma io non ho qui lo spazio per riportare i suoi efficaci argomenti – sia che non esistono lingue migliori di altre (più complesse, più evolute, più logiche, più geniali, più musicali, ecc.), sia che la percezione della realtà, le capacità di pensiero e le capacità di comunicazione non sono determinate dalla lingua che si parla ("si parla", si badi bene, perché è della lingua orale che si tratta, non della letteratura).

Sia a livello sintattico che a livello lessicale tutte le lingue condividono degli universali su base biologica, comuni a tutte le lingue, che non dipendono dalla cultura e che ogni bambino “conosce” implicitamente fin dalla nascita, essendo predisposto ad imparare, negli stessi tempi e con gli stessi risultati, qualsiasi lingua, indipendentemente dalla lingua parlata dai genitori da cui è nato: il bambino nasce con istruzioni che precedono l’esperienza, contenute nel patrimonio genetico. Tutti gli esseri umani nascono esattamente con le stesse istruzioni geneticamente determinate. E’ un fatto naturale, accertato dalla scienza linguistica: non c’è una ragione logica per cui è così, ma è un fatto, così come non c’è una ragione logica per la quale noi essere umani non abbiamo sei dita per mano: è un fatto. Quindi, tutti gli esseri umani condividono la stessa struttura neurobiologica che esprime il linguaggio; le proprietà comuni a tutte le lingue sono collegate con la struttura neurobiologica; tutti parliamo la stessa lingua, da sempre, e le evidenti macroscopiche differenze tra le lingue non devono farci non vedere la sottostante struttura comune e i sottostanti principi comuni a tutte le lingue, così come le evidenti macroscopiche differenze tra le diverse presunte “razze”, cioè tra i diversi sottogruppi della specie umana (colore della pelle, forma degli occhi, ecc.), che dipendono da minime differenze genetiche, non devono farci non vedere quanto c’è di simile tra tutti gli esseri umani. Come in tutti i sistemi complessi, variazioni anche minime generano effetti macroscopici, che rischiano di non far vedere la somiglianza di fondo.

Oltre al pregiudizio che esista una gerarchia tra le lingue, Moro smonta – ripeto, non posso qui riportare i suoi argomenti – il pregiudizio che la lingua che si parla determini il modo di percepire la realtà e la capacità di pensare e di comunicare (e quindi il pregiudizio che chi parla una lingua “migliore” percepisca, pensi e comunichi “meglio”, abbia una “migliore” base neuropsicologica e sia in definitiva una persona “migliore”).

Il libro di Moro è di grande valore e utilità non solo dal punto di vista linguistico, per quello che ci insegna sul linguaggio, e non solo dal punto di vista in senso lato politico, perché dimostra l’insostenibilità del razzismo anche dal punto di vista linguistico (oltre che biologico, neuropsicologico e antropologico): è utile anche per quello che ha da dire a un counselor filosofico come me. Infatti, il testo argomenta molto bene, come già detto, che la lingua non influenza la percezione della realtà e che per esempio un certo rumore o un certo colore vengono percepiti anche da chi non ha un termine per denominarli (il rumore di un turboreattore non sarà percepito in modo diverso da un contadino anche se non conosce questo nome). 

L’autore non presenta un esempio con le emozioni. Mi chiedo allora se una persona che non sia “alfabetizzata emotivamente”, che non abbia cioè le parole per dire tutte le proprie emozioni, sia una persona che quelle emozioni comunque le prova, anche se non sa nominarle. Qualcuno potrebbe dubitarne e potrebbe dire che se non hai le parole per le tue emozioni in un certo senso non le stai provando. Io non ho questo dubbio. La persona che non ha le parole per le proprie emozioni le sta comunque provando: ma il suo problema è che non riesce, non avendo le parole, né a comunicare quelle emozioni né ad avere di quest’ultime piena consapevolezza: e quindi non può né condividerle né “gestirle”, modularle, soprattutto quando sono negative, cioè quando fanno star male, quando fanno star male chi le prova o chi è vicino a chi le prova. 

Ecco, un incontro di counseling filosofico può avere questo bellissimo obbiettivo (e anche un incontro di consulenza pedagogica può averlo): aiutare la persona a trovare le parole per le proprie emozioni, per dire la propria esperienza, che sarà così più significativa: perché è vero che l’esperienza la puoi fare anche senza parole, ma con le parole sarà più ricca, più significativa, più consapevole e, oltretutto, comunicabile, condivisibile. Anche questa è consapevolezza di sé, anche questa è cura di sé.

(L'immagine di questo post: dal film "Inside Out)


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